Fiducia, coerenza e trasparenza. Sono questi i tre pilastri sui quali si basa la comunicazione della sostenibilità. La fiducia è essenziale per gestire al meglio le relazioni con gli stakeholder, migliorando reputazione e capitale relazionale. La coerenza tra ciò che si dichiara e ciò che si fa evita la perdita di credibilità, con impatti anche economici. La trasparenza è ormai un prerequisito: le aziende devono essere case di vetro, raccontando non solo i successi, ma anche le difficoltà. Attenzione però, se mal gestita, la comunicazione rischia di essere percepita come greenwashing.
A dirlo, o meglio a scriverlo, è Rossella Sobrero, esperta di comunicazione e sostenibilità, docente universitaria, oltre a essere Presidente e Fondatrice di Koinètica, prima azienda di comunicazione in Italia dedicata alla CSR. Le pagine, quelle dedicate alla keyword #Comunicazione all’interno del libro Dove i fatti non arrivano di Stefano Martello e Sergio Vazzoler. “Antologia ragionata e appassionata della comunicazione ambientale”. Così si presenta.
Di keyword correlate alla comunicazione sostenibile il volume ne raccoglie ben cinquanta. Professionisti della comunicazione, formatori, docenti universitari, avvocati, e non solo, si sono uniti in un unico lavoro corale per dare forma a queste parole chiave che aprono la porta al racconto della sostenibilità.
Volendo approfondire alcuni passaggi del libro, a nostro avviso particolarmente interessanti per chi si occupa di comunicazione ambientale e sostenibile, abbiamo deciso di intervistare Sergio Vazzoler. Oltre che autore di libri sulla comunicazione ambientale (questo è il terzo), Sergio Vazzoler è esperto di comunicazione istituzionale e dal 2011 Co-founder e Direttore Strategie e Relazioni Istituzionali di Amapola, Società Benefit di consulenza specializzata in sostenibilità, con un particolare focus sulla comunicazione.
Nove domande per capire cosa c’è là Dove i fatti non arrivano
La premessa. Come nasce il libro e a quale necessità risponde?
Partiamo da qui. Dove i fatti non arrivano nasce dopo altri due libri curati sempre da Stefano Martello e Sergio Vazzoler: Libro Bianco sulla Comunicazione Ambientale e L'anello mancante. La comunicazione ambientale alla prova della transizione ecologica, pubblicati rispettivamente nel 2020 e 2022.
Nuova tappa di un percorso in divenire lungo i labirinti delle parole che ci accompagnano nella transizione ecologica, questo volume intende opporsi al più recente mainstream che circola tra chi lavora nel settore: i fatti contano più delle parole. La paura di essere tacciati di greenwashing spinge a non comunicare più obiettivi e traguardi raggiunti.
Del passaggio che stiamo vivendo dal greenwashing al greenhushing (dall'inglese to hush, mettere a tacere), ne ha parlato a inizio anno anche lo studio di South Pole dai cui dati è emerso come il 58% dei Sustainability Manager su un campione di circa 1.400, provenienti da 12 Paesi e operanti in 14 settori, stia diminuendo le attività nella Comunicazione. E ben il 92% tra le 77.000 aziende del data base completo South Pole non ha dichiarato pubblicamente un impegno Net Zero, e quindi non ha obiettivi o progressi da mostrare. Secondo South Pole questa tendenza è preoccupante, poiché l’azione dei leader ispira l’azione dei follower. Ecco, gli autori del libro vogliono ribaltare questo approccio di oggi contrapponendovi l’idea della comunicazione come forma di condivisione, di costruzione dei significati condivisi.
«Una comunicazione come valore di condivisione, di messa in comune, di ingaggio, di coinvolgimento, anche di responsabilità, è essenziale, fondamentale. Ecco perché abbiamo scelto come titolo del libro Dove i fatti non arrivano. I fatti ─ dice Vazzoler ─ sono ovviamente fondamentali, ma hanno bisogno poi di un racconto che dia loro senso e che generi in qualche modo un riconoscimento verso le persone che hanno contribuito a realizzarli, e che possono altresì contribuire ulteriormente a generare ulteriori fatti verso un miglioramento sia individuale che collettivo all'interno di una comunità di un'organizzazione. Perché i fatti sono sì basilari, ma è necessario che viaggino paralleli con la comunicazione sin da subito. Quindi, non si tratta di una comunicazione intesa esclusivamente, seppur importantissima, come attività di valorizzazione finale, ma di una comunicazione intesa proprio come frame, come cornice dentro la quale far accadere le cose».
Domanda 2. Qual è la missione della comunicazione ambientale?
«La missione della comunicazione ambientale è quella di farsi carico dei punti di vista anche lontani tra di loro. Il comunicatore o comunicatrice deve svolgere il ruolo di tessitore sociale. Questo significa lavorare moltissimo sull'aspetto relazionale cercando di comunicare i temi ambientali in un modo tale che ciascuno possa ritrovarvi un ambito di confronto non scomodo. Per raggiungere questo obiettivo bisognerà tener presenti le tre C della comunicazione ambientale: la complessità, le contraddizioni e il conflitto.
Dobbiamo partire dal fatto che questi temi sono molto complessi da decifrare, perché fortemente orientati a una cultura scientifica. Pertanto non si può arrivare a comunicare questi temi senza aver approfondito in maniera puntuale quello che ci sta dietro. Ne deriva che il comunicatore o la comunicatrice ambientale deve essere una persona preparata e costantemente aggiornata. Le contraddizioni poi tra le quali destreggiarsi in questo ambito sono tantissime, una tra tutte: Italia, Paese nei posti in classifica più alti per raccolta differenziata, ma anche Paese scarsissimamente attento a pensare alla destinazione finale dei prodotti acquistati e anche alla produzione dei materiali che poi diventano rifiuti. Chi fa comunicazione ambientale deve sapere che avrà sempre una prova contraria da affrontare, e anche se il suo obiettivo è quello di portare a casa un cambiamento di abitudine o di comportamento deve essere consapevole che le persone a cui si rivolge spesso sono contraddittorie, e quindi possono anche aderire a quel dato principio, a quella scelta, ma poi possono tradirla da un altro punto di vista. Per quanto riguarda il conflitto bisogna infine accettare la realtà per la quale ogni tipo di tematica ambientale concreta trova degli interessi contrastanti, e questo porta inevitabilmente a una conflittualità.
Ecco, chi comunica questi temi ha bisogno di essere consapevole della complessità della materia, delle sue contraddizioni e della possibilità di generare un conflitto e quindi deve lavorare su dei messaggi, dei codici di comunicazione che siano in grado di invece avvicinare, accorciare le distanze tra punti di vista o di interesse lontani».
Domanda 3. Cosa intendi quando parli di “paradosso comunicativo” della comunicazione ambientale? Come venirne fuori?
«Nella nostra comunità professionale si sente dire, un po' per in qualche modo avvalorare il proprio ruolo di consulente, un po’ perché si pensa di rassicurare gli interlocutori, “andiamo alla caccia dei fatti e poi dopo pensiamo alla loro valorizzazione”, come ho detto all’inizio, perché si ha paura di cadere in un'operazione di maquillage. Ma, a mio avviso questa è una visione di corto respiro, perché, se riesci a superare le tappe del percorso che ti deve portare verso una maggiore sostenibilità e non metti a fattore comune queste strategie, questi obiettivi, che sono anche molto faticosi, con tutte le persone che fanno parte dell’organizzazione, inizi già col piede sbagliato. Avrai un approccio molto orientato alla conformità delle norme, ma non le farai vivere nella tua organizzazione e non diventeranno patrimonio comune», spiega il proprio punto di vista Sergio Vazzoler.
«Il comunicatore aziendale ─ prosegue l’autore ─ deve essere consapevole del proprio ruolo strategico, e quindi le aziende che vogliono affrontare seriamente percorsi di questo tipo a medio lungo termine devono inserire chi svolge la funzione di comunicazione nel board strategico. Perché non solo le visioni di medio lungo termine devono essere condivise per accompagnare una strategia di comunicazione interna ed esterna, ma anche perché il comunicatore, la comunicatrice, come tessitore sociale, è anche qualcuno che può portare a quel tavolo visioni nuove e originali».
Domanda 4. La “sindrome di Rain Man”, ci spieghi di cosa di tratta e che ruolo gioca l’empatia nella comunicazione ambientale?
«La sindrome di Rain Man io l'ho codificata così anni fa volendo identificare quella tendenza, tipica della comunicazione di questi temi, che in qualche modo si uniforma e appiattisce su una serie di acronimi incomprensibili, di inglesismi, di tecnicismi, cioè di un linguaggio in qualche modo lontanissimo dal linguaggio comune di tutti i giorni. Questo perché, come nel film con Dustin Hoffman e Tom Cruise, in qualche modo la comunicazione ambientale diventa un po' un linguaggio ermetico dove si ritrovano esperti che snocciolano dati, che usano soltanto codici e acronimi, e che poi però si perdono in un bicchiere d'acqua a livello relazionale, incapaci di trovare una modalità per allargare la platea delle persone che possono diventare più consapevoli rispetto alle sfide ambientali. Come fare per allargare la platea, allora? Si potrebbe iniziare sperimentando nuovi codici, nuovi linguaggi, quelli anche più vicini alle nuove generazioni, quelli che un po' spiazzano. Ed è qui che entra in gioco l’empatia, per capire chi si ha davanti e sforzarsi di creare una relazione».
Domanda 5. La comunicazione ambientale deve essere anche sexy, dice Riccardo Parigi nel tuo libro, cosa significa?
«Nella sua esperienza di tanti anni come esperto di comunicazione e dei temi ambientali, Riccardo Parigi ha visto come una comunicazione ambientale che sia empatica, che sia in qualche modo calda, avvolgente, che faccia partecipare i propri interlocutori, quindi mettendoli sullo stesso piano e cercando di costruire insieme quello che in qualche modo può essere il messaggio poi da veicolare all'esterno, stia assumendo un valore ancora più importante. “Sexy” vuol dire proprio questo: il bisogno di rendere la comunicazione ambientale in qualche modo attraente, sensuale, non fredda, invece di puntare solo al renderla tecnicamente diciamo magari perfetta, ma che poi non ha quella capacità di spingere le persone a fare proprio quel messaggio e magari arrivare a cambiare il comportamento».
Negazionismo e greenwashing, le due posizioni estreme che fanno male alla comunicazione ambientale
Il 28 agosto, l'intervento del fisico del clima Antonello Pasini (Cnr), trasmesso al Tg1, è stato tagliato. Nel servizio si parlava del maltempo in Italia, ma è stato rimosso il riferimento di Pasini al cambiamento climatico, in cui collegava gli anticicloni africani al riscaldamento globale. Pasini ha denunciato il taglio sul proprio profilo Facebook definendolo "strategico”, mentre Greenpeace ha denunciato la "censura climatica" su Twitter.
Domanda 6. Un tuo commento sull’accaduto e se ci indichi il modo migliore per affrontare il negazionismo?
«L’'accaduto, dal mio punto di vista, è la conferma plastica di come questo tema faccia ancora paura. Quando prima parlavo della terza C della comunicazione sostenibile, cioè del conflitto, intendevo che non possiamo negare che ci siano conflitti anche tra interessi molto forti, come per esempio quelli che coinvolgono tutto il comparto dei combustibili fossili che non vuole in qualche modo arrivare a un dunque, non vuole cambiare pelle sul serio, visti i volumi e gli impatti economici che questo tipo di produzioni hanno, ritardando il più possibile l’appuntamento con le proprie responsabilità ambientali.
Il negazionismo degli opinion leader, degli opinion maker come i grandi media, dei talk show televisivi, degli influencer soprattutto più conservatori e degli appartenenti più a una certa area politico-economica, dal mio punto di vista, è un negazionismo colpevole che va contrastato in ogni modo, perché sono persone che conoscono la realtà, ma con volontà precisa cercano invece di raccontare un'altra storia.
Poi invece c’è un negazionismo in buona fede che nasce dal non avere gli strumenti culturali per poter comprendere qual è il merito della sfida, e soprattutto che si inserisce su un interesse. Si tratta di un'attenzione che è assolutamente comprensibile, che nasce dalla paura di perdere qualche status, qualche parte del proprio patrimonio, fa scattare un timore, e il timore spesso porta poi ad accodarsi a una narrativa che invece viene esercitata da quei negazionisti colpevoli che sono gli opinion leader.
Allora, comunicatori e comunicatrici devono stare attenti a distinguere il negazionismo molto colpevole, che va contrastato accompagnando invece una comunicazione responsabile, trasparente, autentica, da quel negazionismo più sociale che invece nasce dalle paure che vanno accolte, e su cui lavorare per far capire come in realtà se non si fanno oggi delle scelte, anche in qualche modo impattanti, per contrastare la crisi climatica, quelle stesse persone avranno un danno ancora maggiore in futuro perché si arriverà poi a dover compiere scelte draconiane; e invece ecco che è importante lavorare su l'accompagnamento di questi processi. Un errore che fanno molti esperti è proprio quello di trattare sempre tutti allo stesso modo, non facendo altro che rafforzare l'unione tra i due tipi di negazionismo».
Nel libro, naturalmente, non poteva mancare una riflessione sul tema del washing, che, come ricorda Giorgia Grandoni, non è solo verde, ma anche pink, rainbow e altro ancora. E veniamo così alla domanda sette.
Domanda 7. Cosa può fare un'azienda per evitare il greenwashing e comunicare in modo trasparente i propri sforzi verso la sostenibilità?
«Le aziende per evitare il rischio greenwashing devono mettere in atto un percorso strategico che unisce al tavolo, come dicevo prima, i comunicatori ambientali e gli esperti del tema, siano loro interni o esterni, ossia anche i consulenti che svolgono questo lavoro se internamente non ci sono le competenze necessarie, e iniziare un percorso insieme. Perché questo? Perché se non si agisce in questo modo ci si porrà soltanto poi il problema di rendere conto di quello che si sta facendo, rischiando però di non aver condiviso la strategia, le difficoltà, gli ostacoli che in questi percorsi esistono sempre e sviluppano coinvolgimento.
Altra cosa che impatta tantissimo sulla possibilità di cadere nel greenwashing è che non si ascolta abbastanza la voce degli interlocutori, dei consumatori tipicamente, rischiando di rimanere in ritardo verso queste evoluzioni, e di essere accusato immediatamente di voler fregare il prossimo. Magari non è così, ma questo deriva da una scarsa cultura della comunicazione intesa come ascolto e dialogo con propri clienti, ed è fondamentale per prevenire certi incidenti».
I temi sociali della comunicazione sostenibile
Abbiamo parlato sino adesso di comunicazione ambientale, ma sotto il grande cappello della comunicazione sostenibile rientra anche la comunicazione sui temi sociali che impattano sulle singole persone, minoranze o intere comunità. Sempre alla fine di agosto i giornali hanno battuto una notizia che non poteva passare inosservata agli occhi di chi fa il nostro mestiere: Harley Davidson e Jack Daniel’s hanno rinnegato le proprie politiche di Diversy & Inclusion, per profitto, poiché tacciate di non essere più allineate ai propri clienti, “gli uomini duri”, e per strizzare l’occhio ai conservatori in tempi di elezioni. Cercando, dunque, di superare il senso di sconforto provato mettendoci nei panni dei colleghi che in questi anni hanno raccontato con entusiasmo e fiducia il percorso verso la sostenibilità sociale di queste imprese, ti chiediamo:
Domanda 8. Come, o addirittura se, possono le aziende bilanciare la necessità di essere autentiche nelle loro politiche di Diversity & Inclusion senza alienare segmenti di clientela tradizionali? E da esperto di sostenibilità in senso più ampio, quali sono i rischi a lungo termine per un brand come Harley Davidson o Jack Daniel’s nel rinunciare a politiche di inclusione?
«Qui siamo davanti a uno degli esempi migliori rispetto a quanto si diceva sulla complessità di queste sfide, la prima C della comunicazione ambientale. È chiaro che, per una marca fortemente connotata come quelle citate su valori che sono opposti a quelli dell’inclusione e della diversità, la sfida è molto più complessa chiedendo di essere pronti a rinunciare a una fetta del proprio mercato tradizionale, almeno inizialmente, o comunque di entrarvi in conflitto. Il conflitto in questo caso infatti è praticamente inevitabile, e diventa dunque comprensibile che uno possa anche fare marcia indietro. Ma queste marce indietro, dal mio punto di vista, sono comunque un'anatra zoppa perché la società sta cambiando e il cambiamento non si può fermare anche se lo si cerca di ignorare. È chiaro, dunque, che se nel breve termine si potrà riscontrare anche un vantaggio competitivo, ritornando indietro però, nel medio lungo termine, si sarà nuovamente costretti ad affrontare quei determinati temi semplicemente perché la società sta andando in quella direzione. La conclusione è perdita di tempo e ancora più fatica per ritornare un'altra volta su quel percorso.
Più strategico ritengo dunque sia affrontare questi percorsi di cambiamento avanzando a poco a poco. Perché, certe volte, questa rivolta del proprio zoccolo duro di interlocutori, di consumatori, nasce anche dal fatto che magari la svolta è stata troppo veloce, troppo netta, e quindi nemmeno correttamente accompagnata. Io invece consiglierei politiche più progressive a piccoli passi ma fortemente accompagnata da una comunicazione inclusiva e coinvolgente, che cerchi anche di ragionare, di confrontarsi insieme ai consumatori».
Un 18° Goal nell’Agenda 2030 per la comunicazione responsabile
Domanda 9. A fine luglio la Global Alliance for Public Relations and Communication Management ha inviato una lettera al Segretario Generale dell'ONU, António Guterres, sollecitando l'introduzione di un 18° Obiettivo nell'Agenda 2030 dedicato al tema della comunicazione responsabile. Ci spieghi di cosa si tratta?
«Il 18° Goal, a proposito di sfide impossibili, è una sfida impossibile. Eppure la portiamo avanti come Ferpi e come Global Alliance, che è l'associazione che riunisce tutte le associazioni di relazioni pubbliche a livello internazionale e che, come ricordato ha ufficialmente consegnato la lettera al Segretario delle Nazioni Unite dove si propone l'integrazione nell'Agenda 2030 di un diciottesimo goal dedicato alla comunicazione responsabile.
Ora, è chiaro che quando è stata ideata l'Agenda 2030 e i 17 Goal è stato fatto un lavoro tra Stati importante, e quindi diciamo che è difficile potere inserire questo 18° Goal con già quasi dieci anni di percorso alle spalle. Nonostante però la sua realizzabilità o meno, per chi fa il nostro mestiere e porta avanti l'importanza di una comunicazione, come abbiamo detto fin qua, autentica, trasparente, responsabile, lontana dalle fake news, lontana dalla scorciatoia, lontana dall'artificio, pensiamo che sia fondamentale far entrare nel dibattito pubblico il tema per avere una più ampia possibile diffusione culturale. I riscontri internazionali non si sono fatti attendere: da più parti c'è interesse verso questo tipo di iniziativa perché molti sentono il bisogno di porre un freno a quella che è la comunicazione irresponsabile che non fa altro che alimentare i negazionismi allontanando dagli obiettivi individuati».