Green, e tutte le sue varianti: dal greenwashing al greenlighting passando per il greenlabelling e oltre

Il greenwashing è solo la punta dell'iceberg: dal greencrowding al greenlighting, molte aziende utilizzano tecniche che appaiono sostenibili, ma nascondono una realtà diversa. Ecco come riconoscere queste pratiche ingannevoli

Di Arianna De Felice

Dizionario della Sostenibilità - Pubblicato il 30-12-2024

La sostenibilità è ormai diventata un imperativo per le aziende di ogni settore, spinte dalla crescente consapevolezza dei consumatori e dalle normative ambientali sempre più stringenti. Tuttavia, in questo contesto, non tutte le pratiche "green" sono autentiche o trasparenti. Al contrario, esiste una gamma di comportamenti aziendali che, sebbene si presentino come sostenibili, spesso nascondono intenzioni meno nobili. Termini come greenwashing, greenshifting, green marketing e greenhushing sono sempre più utilizzati per descrivere queste sfumature di strategie ambientali, dalle più ingannevoli a quelle più effettive.

Cos’è il green marketing

Il green marketing è una strategia che promuove prodotti e servizi con un ridotto impatto ambientale, puntando sulla sostenibilità e sulla trasparenza per conquistare consumatori attenti alle tematiche ecologiche. Si basa sull'adozione di pratiche rispettose dell'ambiente lungo tutta la filiera produttiva e su una comunicazione onesta, evitando il greenwashing, cioè affermazioni fuorvianti sulla sostenibilità.

È importante utilizzare dati verificabili, certificazioni riconosciute e campagne di sensibilizzazione per educare il pubblico sull'importanza dell'eco-sostenibilità. Aziende come Patagonia e IKEA dimostrano come il green marketing possa rafforzare la reputazione, generare fidelizzazione e differenziarsi sul mercato. Trasparenza e impegno reale sono essenziali per mantenere la fiducia dei consumatori e ottenere risultati concreti.

Il greenwashing e le sue varianti

L’aumento dell’importanza del green marketing, dato dalle normative e dall’alta attenzione che stakeholder e clienti finali hanno verso i temi ESG, porta purtroppo a volte le imprese ad applicare tecniche di comunicazione scorrette, volontarie o involontarie.

La più nota è senza dubbio la pratica del greenwashing, alla quale le aziende ricorrono per cercare di dimostrarsi sostenibili, anche se non lo sono realmente. Tuttavia, di pari passo con l’importanza della sostenibilità e delle normative, le aziende stanno sperimentando nuove varianti del greenwashing.

Tra queste spicca il greencrowding. Il termine, che prende origine dalla parola inglese crowding ovvero affollamento, intende proprio fare riferimento al dispendere tra il rumore della folla, che in questo caso è rappresentata dalle altre aziende, il proprio reale impatto e le proprie mancanze in tema green. Questo metodo sembra essere utilizzato soprattutto quando ci sono collaborazioni molto ampie che generano grandi numeri i quali, però, rischiano di essere fuorvianti dato che non lasciano intendere il reale impegno dei singoli partecipanti ma solo quello cumulativo.

Tutto il contrario è, invece, la pratica di greenlighting che intende accendere un faro sull’azienda. Qui, in realtà, il fascio di luce pone in risalto solo un progetto specifico e ben selezionato che ha raggiunto determinati obiettivi ESG mentre, nell’ombra, viene lasciato il reale impatto dell’azienda. Il greenlighting è una pratica molto diffusa ultimamente dato che spesso si sentono grandi progetti che pongono in ottima luce da un punto di vista reputazionale le imprese ma che, in realtà, sono solo un faro in mezzo all'oceano.

La pratica del greenlabelling o etichettatura verde, è un’altra tra le più dibattute tecniche di greenwashing e fa riferimento alle etichette che vengono poste sui prodotti che spesso li promuovono come “verdi”, “sostenibili”, “bio”, “naturali” o “ecologici” quando, in realtà, non è davvero chiaro quanto lo siano né, soprattutto, quanto lo sia stato il processo della loro produzione. Su questo tema anche la Commissione Europea sta cercando di definire norme sempre più stringenti (note come Direttiva Green Claims) per cercare di arginare la situazione.

C'è poi chi continua a cadere nel greenrinsing ovvero chi cambia di continuo i propri obiettivi ESG prima di averli raggiunti e chi, invece, per evitare di sbagliare diminuisce sempre più la propria comunicazione relativa alle proprie performance di sostenibilità, sperando così di eludere i controlli degli investitori. In questo secondo caso si parla di greenhushing. Non manca chi cerca di scaricare le proprie responsabilità sul cliente finale, cercando di colpevolizzarlo: in questo caso si parla di greenshifting.

Come ultima sfaccettatura del greenwashing c'è anche il greenwishing , uno tra i più recenti termini tanto che si potrebbe pensare che si tratti solo di un errore di battitura. Ebbene, non è così. Se il greenwashing è l'intenzione di presentarsi più green di quanto lo si è realmente, il greenwishing fa riferimento a quelle imprese che vorrebbero essere verdi ma che non ci riescono. Nello specifico il termine riguarda numerose aziende che cominciano il loro percorso per diventare delle imprese sostenibili e raggiungere obiettivi ambiziosi ma che, spesso, risultano irrealizzabili per mancanza di strumenti o strategie concrete. Sebbene rispetto alle pratiche intenzionali spiegate finora il greenwishing possa sembrare innocuo, così non è. Il problema di non riuscire a raggiungere determinati obiettivi, infatti, porta le imprese alla perdita di fiducia del mercato e a una irrimediabile reputazione negativa.

 


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