La sostenibilità è ormai un tema centrale delle aziende che, spinte dall'urgenza di affrontare sfide ambientali e sociali, adeguandosi così alle normative vigenti, hanno dato vita anche a pratiche di sostenibilità scorrette note come ESG-washing. Il termine, che letteralmente vuol dire lavaggio e quindi in origine era un'accezione positiva di “pulizia”, in questo caso acquisisce un’accezione negativa legata all’inganno. Con washing, infatti, si fa riferimento a tutte le pratiche ingannevoli utilizzate dalle aziende per migliorare la loro immagine senza un reale impegno verso i valori dichiarati. Negli anni questo ha portato alla diffusione di diversi fenomeni tra i quali il più noto è sicuramente il greenwashing ma non è l'unico.
Per cercare di contrastare queste pratiche, il 17 gennaio 2024, il Parlamento Europeo ha approvato la direttiva Green Claim che vieta dichiarazioni fuorvianti sulle etichette applicate sui prodotti. Per esempio non si potranno più utilizzare indicazioni ambientali generiche come “rispettoso dell’ambiente“, “rispettoso degli animali”, “verde”, “naturale“, “biodegradabile“, “a impatto climatico zero” o “eco” se non supportate da prove.
Il greenwashing
Con greenwashing si intende quando un'azienda dichiara o comunica determinati obiettivi di sostenibilità per migliorare la propria reputazione ambientale che, però, non ha mai raggiunto. Un esempio è quando le imprese usano campagne pubblicitarie ingannevoli o enfatizzano piccoli miglioramenti ambientali per distogliere l'attenzione da pratiche aziendali dannose.
Sebbene il termine sia stato coniato negli anni '80 (venne citato per la prima volta in un saggio del 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld) si può supporre che anche prima venissero effettuate pratiche di comunicazione scorrette. Nonostante questo il termine è esploso negli ultimi anni andando di pari passo con l'attenzione che aziende e consumatori mettono nelle pratiche relative ai temi ESG. A dimostrarlo è il fatto che la prima ordinanza cautelare in termini di greenwashing è stata emessa il 25 novembre 2021 dal tribunale di Gorizia.
Il blue washing
Il termine blue washing si riferisce all'uso di tematiche sociali o all'appartenenza a organizzazioni internazionali per migliorare l'immagine aziendale senza un reale impegno.
L’origine del fenomeno, non a caso, fu quando l’ONU istituì l’UN Global Compact al quale diverse aziende si iscrissero subito per migliorare la loro immagine, pur non abbracciandone concretamente i dieci principi compresi nel patto.
Il nome "blue", infatti, non è certo un caso e fa riferimento al colore del logo dell'ONU.
Il pink washing
Il discorso della parità di genere è presente in ogni azienda anche se in alcune restano parole senza davvero abbattere alcuna barriera. Quando questo avviene si chiama pink washing.
Il nome è nato nel 2000 dalla Breast Cancer Action. In quel periodo, infatti, molte imprese utilizzavano il fiocco rosa che simboleggia la battaglia al cancro al seno, per promuovere prodotti associati alle raccolte fondi. Fu allora che, insieme al termine, nacque anche il progetto Think Before You Pink volto proprio a scoraggiare queste pratiche. A oltre vent'anni di distanza, sebbene siano cambiati i metodi, il fenomeno del pink washing è ancora molto diffuso.
Il rainbow washing
Secondo recenti dati Istat, il 41,4% dei lavoratori appartenenti alla categoria LGBTQ+ ritiene che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione). Un dato questo, che mostra come non solo l’inclusione di genere femminile ma anche di genere sessuale deve essere (correttamente) applicata al centro dell’attenzione di aziende e dipendenti che cercano luoghi di lavoro nei quali possano essere accettati senza pregiudizi.
Quando questo non avviene realmente, anche se esternamente si comunica il contrario, si parla di rainbow washing, termine che deriva dalla bandiera arcobaleno del movimento LGBTQ+. Questa pratica è particolarmente diffusa soprattutto durante il mese di giugno, quando si festeggia il Pride Month, e molte aziende cambiano addirittura i colori del proprio logo optando per l’arcobaleno.
Il vegan washing o veggie washing
Data l'importanza che temi come il veganismo e i diritti degli animali hanno acquisito negli ultimi anni è nata una sottocategoria del greenwashing appositamente dedicata nota come vegan washing o veggie washing. Si tratta della pratica utilizzata dalle aziende di pubblicizzare prodotti e servizi come vegetali o vegani anche se non lo sono.
Il social washing
L'acronimo ESG fa riferimento non solo ai fattori ambientali ma anche a quelli sociali. Negli ultimi anni, infatti, le aziende sono state spesso sottoposte a controlli su questi temi e alcune hanno realmente preso in considerazione i diritti dei propri dipendenti e stakeholder. Allo stesso tempo, altre hanno adottato la pratica del social washing, in cui la dirigenza inganna il pubblico affermando falsamente di essere concentrata sul benessere di tutti gli stakeholder senza fare nulla per supportare queste affermazioni.
Il social washing è composto da una serie di sottocategorie che, suddivise per colori di riferimento, cercano tutte di denunciare pratiche scorrette fin troppo spesso utilizzate dalle aziende come: il pink washing, il blue washing e il rainbow washing.
Il carewashing
Il carewashing è un termine che si riferisce a quando le aziende o i brand adottano pratiche di marketing che danno l'impressione di essere impegnati in cause sociali o ambientali, senza però attuare cambiamenti significativi o reali. In altre parole, si tratta di un'operazione di greenwashing o social washing, in cui viene promossa una falsa immagine di responsabilità e cura verso determinate tematiche, come la sostenibilità o l'inclusività, per attrarre i consumatori senza un impegno concreto.